Relazioni e affetti

Dopo un lutto si cambia

Il lutto, nelle sue varie forme, provoca effetti a livello di cambiamenti cerebrali

di Maria Grazia Buletti

Tutti noi abbiamo sperimentato, in un modo o nell’altro, quella tempesta emotiva che ci attraversa alla scomparsa di una persona a noi cara: il lutto è di fatto un’esperienza universale e il suo impatto, sia esso improvviso e inaspettato o la conclusione di un decorso dovuto a una malattia, è a volte così pregnante da farci sentire una persona diversa. Ma questa non è solo un’impressione bensì un’evidenza scientifica certificata da psicologi e neuroscienziati: il lutto è in grado di cambiare profondamente il nostro cervello.

Lisa Schulman e Mary-Frances O’Connor sono due neuroscienziate che descrivono il lutto come un’esperienza che passa attraverso due fasi distinte: il dolore iniziale che è immediatamente successivo alla perdita, e il seguito è rappresentato dall’elaborazione di questo dolore. La prima fase è data da un forte stress perché quando sperimentiamo un trauma emotivo, il cervello attiva gli stessi meccanismi della reazione attacco – fuga: la pressione e il battito cardiaco aumentano e sono rilasciati specifici ormoni come il cortisolo. I cambiamenti del comportamento, del sonno e delle funzioni corporee sono evidenti e la medicina ha dimostrato che anche il sistema immunitario ne è influenzato e, in generale, ci sentiamo confusi e deconcentrati.

“Il lutto è un’esperienza pregnante che passa attraverso le due fasi distinte di dolore profondo e i conseguenti cambiamenti psicofisici”

Dunque, la fase del dolore iniziale che provoca stress ha caratteristiche psicofisiche diagnosticabili e, per quanto si tratti di un momento emotivamente sconvolgente, è un meccanismo di autodifesa con il quale il cervello sta cercando di conservare le sue forze per quanto possibile, focalizzando le sue energie sulle funzioni metaboliche basali della sopravvivenza. È noto che la risposta di attacco – fuga si è evoluta nell’essere umano per incrementare le sue possibilità di sopravvivenza. Ed è provato che la perdita di una persona cara, soprattutto se inaspettata e improvvisa, scatena a livello innato gli stessi meccanismi.

Inoltre, i neuroscienziati hanno altresì provato che se il dolore iniziale è uno stato acuto di allarme, il lutto vero e proprio diventa un elemento costante della nostra vita: una sorta di “rumore di fondo” che sopraggiunge ogni qualvolta pensiamo alla persona che abbiamo perso. Il fattore tempo diventa fondamentale per processare questo dolore perché il nostro cervello necessita tempo, per l’appunto, affinché riesca ad imparare, durante la nostra quotidianità, a fare i conti con l’assenza della persona mancata. Questo perché il nostro cervello deve imparare a fare i conti con quest’assenza: le relazioni che ci legano al defunto sono state recise, ma per il cervello è come se fossero ancora presenti e, per questo, attiva gli stessi circuiti emotivi della memoria.

“Il tempo è l’elemento chiave perché i circuiti cerebrali riescano a sopperire alla mancanza fisica della persona mancata”

Si dice spesso alla morte di un caro che “è come se fosse scomparsa una parte di me” e, a livello neurologico, è come se fosse effettivamente così.

Non tutti sono in grado di processare il lutto con efficacia e questo potrebbe comportare conseguenze molto importanti. Alcuni studi, per esempio, hanno evidenziato un tasso di mortalità e di malattia maggiore per chi era rimasto vedovo o vedova, rispetto a coppie della stessa età in cui entrambi sono ancora in vita. Sebbene si tratti di uno stato neurologicamente distinto dalla depressione, se non correttamente processato può presentare sintomi molto simili.

Quindi, il lutto nelle sue varie forme provoca effetti a livello di palesi cambiamenti cerebrali.

A questo proposito, riportiamo integralmente l’interessante intervento di Fiamma Fenili, psicologa proveniente dalla facoltà di psicologia dell’Università di studi di Firenze:

“Il lutto e i cambiamenti cerebrali che ne conseguono” 
(State of Mind, aprile 2024):

“Il lutto può assumere varie forme, può essere dovuto alla morte di una persona importante, alla rottura di una relazione, al trasferimento o ad altri eventi, e può avere un effetto molto negativo. Questo effetto è dovuto al fatto che siamo persone sociali, e il legame con le altre persone ci dà un senso di appartenenza. I lutti o le separazioni da persone per noi significative possono farci vivere sentimenti di tristezza, solitudine e di mancanza di significato, che a lungo andare ci logorano. 

Questi sentimenti si provano in modo così intenso anche perché l’esperienza della perdita può portare a cambiamenti nei nostri sistemi biologici. 

Capire come avvengono questi cambiamenti a livello cerebrale può aiutarci a capire che l’elaborazione di un lutto richiede del tempo e che dobbiamo essere compassionevoli con noi stessi durante questo processo (Miller, 2024)

I cambiamenti cerebrali nel periodo del lutto

Durante il periodo del lutto i livelli di ormoni dello stress, come il cortisolo, aumentano e avviene un cambiamento nei modelli di attivazione cerebrale. 

Dagli studi si è evidenziato che è possibile che i gangli basali, ovvero un’area cerebrale situata nella parte inferiore del cervello, si attivino maggiormente. I gangli della base sono coinvolti nella definizione dei nostri modelli di azione abituali e contribuiscono a determinare la ricompensa e il piacere che otteniamo dalle relazioni; inoltre codificano il nostro senso di vicinanza e di attrazione per gli altri. Per questo, secondo gli studiosi hanno un ruolo nel modo in cui reagiamo alla separazione dai nostri cari. Un’iperattività di quest’area in risposta alla separazione dall’altro può spingerci a cercare di riavvicinarci attraverso comportamenti di ricerca e tentativi di riavvicinamento. E, dal momento che le persone a noi care sono associate a sensazioni di gratificazione, la loro assenza può indurci a desiderarle (Miller, 2024).

Un altro punto da tenere in considerazione è che esiste una certa sovrapposizione tra le aree che codificano la rappresentazione di noi stessi e quelle che codificano le rappresentazioni degli altri a noi cari. La nostra mente e il nostro cervello non riescono a distinguere del tutto sé stessi dagli altri; perciò, può esserci in qualche misura una sorta di confusione tra il punto in cui finiamo noi e inizia l’altra persona, soprattutto nelle relazioni intime. Per questo la perdita di una persona significativa può farci sentire come se una parte di noi stessi fosse stata portata via, rendendoci difficile riconoscere chi siamo dopo la perdita.

Infine, nel cervello si può verificare una disconnessione tra le aree della memoria episodica o autobiografica (le quali registrano gli eventi fattuali e ci informano che la persona non c’è più) e le aree della memoria semantica o concettuale (ovvero quelle aree che registrano le informazioni contestuali sulla nostra vita e ci informano che questa persona è stata, e quindi dovrebbe continuare a essere, una parte prevedibile della nostra esistenza quotidiana) (Miller, 2024).

Bloccati nel ciclo di lutto

Ci sono diversi modi in cui le persone possono rimanere bloccate nel dolore conseguente ad un lutto. 

Talvolta le sensazioni di piacere e soddisfazione sono state così tanto legate ad una persona specifica che può sembrare impossibile fare qualcosa di utile o gratificante che non sia legato ad essa. Ad esempio, le persone preferiscono trascorrere del tempo ripensando a vari ricordi (anche se portano dolore), ascoltando canzoni, guardando film o fotografie, piuttosto che orientarsi verso altre attività che potrebbero essere piacevoli ma che non hanno alcun legame con la persona che non c’è più.

In alcuni casi, dedicarsi ad altro può far insorgere il senso di colpa, perché si può pensare di tradire la persona cercando di andare avanti. Più eravamo uniti a qualcuno, più è difficile immaginare un futuro senza di lui/lei, e questa situazione può prolungare il lutto.

È importante, dunque, nel processo di elaborazione del lutto, arrivare ad accettare che la perdita di qualcuno a cui siamo affezionati è una parte inevitabile della vita (Miller, 2024).