Ricerca e innovazione

La Medicina Nucleare come valido strumento trasversale di diagnosi e terapia

di Maria Grazia Buletti

di Maria Grazia Buletti

“La medicina nucleare moderna non nuoce più della radiologia tradizionale: per entrambe l’essenziale sta nel limitarne l’impiego allo stretto necessario”. Sono rassicuranti le prime parole del professor Gaetano Paone e del professor Giorgio Treglia (rispettivamente primario e vice primario del dipartimento di Medicina nucleare dell’Istituto imaging della Svizzera italiana EOC). Di fatto, la parola “nucleare” genera sempre un po’ d’ansia dovuta spesso a una scarsa conoscenza di questa disciplina sempre più importante non solo nella ricerca di diagnosi, ma pure per la terapia di patologie (non solo tumorali) e nella ricerca, come avremo modo di scoprire accompagnati dai nostri specialisti.

Per prima cosa, Treglia puntualizza che la Medicina nucleare è un servizio diagnostico-terapeutico insostituibile, a disposizione in modo trasversale di tutta la medicina generale e specialistica, in quanto in grado di fornire valide risposte a numerosi quesiti: “Se la radiologia tradizionale studia la morfologia (anatomia dell’organo che indaghiamo), la medicina nucleare ne studia la fisiologia: come funziona quel dato organo. Per questo, entrambe sono complementari e grazie all’evoluzione delle nostre apparecchiature sono oggi in grado di unire l’indagine morfologica a quella funzionale, in quella che in gergo si dice “imaging ibrido” ottenibile con l’apparecchiatura SPET-TAC o con la PET-TAC (dove SPET sta per Tomografia ad emissione di singolo fotone, e PET è la Tomografia ad emissione di positrone)”.

La Medicina nucleare è un servizio diagnostico a disposizione della medicina generale e specialistica, in grado di fornire valide risposte a numerosi quesiti.

“Emissione”, “fotone” e “positrone” sono termini che riportano nuovamente alla radioattività e ai timori che ci incute sempre solo perché non siamo sufficientemente orientati sui suoi benefici nella medicina. E a proposito di radioattività, non dobbiamo dimenticare che essa è una normale componente dell’ambiente naturale nel quale siamo immersi dalla nascita, come spiega Treglia: “Durante un viaggio aereo continentale, noi assorbiamo inevitabilmente una dose di radiazioni ionizzanti anche superiore a quella di alcuni esami scintigrafici”. La conferma arriva dalle stime della National Academy of Science: “L’82% delle radiazioni a cui ciascun individuo è mediamente esposto durante la sua vita proviene da fonti naturali; il restante 18% deriva da attività umane (principalmente per procedure mediche che impiegano raggi X), dalla medicina nucleare e da fonti a cui si è esposti per motivi professionali (ndr: le persone che lavorano usando raggi)”.

In Medicina nucleare, parte dunque tutto dal radiofarmaco: “È una sostanza al cui interno abbiamo un isotopo radioattivo (e ribadisco che la radioattività necessaria per ottenere le immagini è davvero molto bassa) che viene iniettata al paziente. Le immagini medico-nucleari sono ottenute per mezzo di apparecchiature che rilevano radiazioni emesse dai cosiddetti radiofarmaci distribuiti nell’organismo, ed è quindi il paziente stesso che emette le radiazioni gamma, registrate dall’apparecchiatura in grado poi di ricreare l’immagine corrispondente”. Così Treglia indica l’accumulo più o meno marcato di un determinato radiofarmaco in un organo specifico come il meccanismo che permetterà di avere le immagini che porteranno a una diagnosi, e non manca di farci riflettere sugli aspetti salienti circa le dosi minime di radioattività a cui ci si sottopone per un esame di medicina nucleare: “Il rischio potenziale derivante dalle radiazioni è inferiore a quello legato alla non esecuzione dell’esame se questo è indicato”. Questo significa che: “La radioattività è così bassa che il suo rischio è irrilevante, mentre non eseguire l’esame comporta un rischio reale dell’evoluzione della malattia”.

Nell’evoluzione degli esami e in quella delle apparecchiature sta il contributo non trascurabile alla sicurezza delle indagini di medicina nucleare che utilizzano isotopi radioattivi, spiega il primario Gaetano Paone: “La metodica è in continua evoluzione: nuovi farmaci e apparecchiature sempre più performanti (di ultima generazione) permettono di ridurre ulteriormente le dosi che utilizziamo. Inoltre, gli esami sono sempre più veloci, sicuri ed efficienti anche grazie alla diminuzione significativa delle dosi di radioattività che il paziente riceve”. Un aspetto che, ad esempio, amplia l’uso di queste tecniche diagnostiche funzionali anche alla pediatria, afferma Treglia: “Minori dosi di radiazioni, velocità, precisione ed evoluzione diagnostica sono elementi a grande favore degli esami su pazienti particolari come i bambini che non devono più sottostare a sedute stancanti perché molto brevi, e con dosi davvero minime”.

Accuratezza diagnostica e irradiazione limitata del paziente sono i punti salienti a favore degli esami di Medicina nucleare

La sua grande evoluzione ha portato la Medicina nucleare al ruolo di partner indispensabile nella diagnostica funzionale di tumori, ma non solo: “La diagnostica medico-nucleare oggi si estende pure a una parte non oncologica, a partire dalle indagini sulle malattie infiammatorie”. Ma andiamo per ordine e con il professor Treglia ci addentriamo nelle indagini mirate alla ricerca di patologie di origine oncologica: “Innanzitutto, abbiamo a disposizione una varietà di radiofarmaci a seconda dei tumori che andiamo a studiare. Quello più usato è l’FDG (fluoro-desossi-glucosio): uno zucchero radioattivo che viene captato da molte cellule tumorali (avide di zucchero). In tal modo, le immagini di captazione dell’isotopo radioattivo accumulato nel tumore ci permettono di individuarlo, anche se di piccole dimensioni, proprio grazie al suo aumentato metabolismo glucidico”. Lo specialista ammette che questa sostanza va anche in altri organi: “Ma il medico nucleare ha gli strumenti adeguati a saper interpretare, sulle immagini, cosa è normale e cosa è invece patologico”. Non basta avere le immagini, è necessario lo specialista in medicina nucleare che sappia discriminare la patologia dalla situazione fisiologica.

Vi sono tumori che, per contro, consumano poco zucchero come quelli cerebrali, alla prostata o i tumori neuroendocrini: “Per i tumori che non si riusciva a individuare con l’FDG, come i tumori cerebrali, si sono sperimentati nuovi radiofarmaci che sono prevalentemente aminoacidi marcati (FET: Fluoro-etil-tirosina), utili perché, a differenza dello zucchero, non si accumulano fisiologicamente nel cervello, ma vi giungono solo se captati da un tumore cerebrale. Per quanto attiene ai tumori neuroendocrini, usiamo analoghi marcati della somatostatina, una sostanza i cui recettori sono presenti in questo tipo di neoplasie. Infine, per il tumore della prostata usiamo radiofarmaci PET che si legano al PSMA (l’antigene di membrana specifico della prostata) che evidenziano la patologia tumorale prostatica o le sue disseminazioni (metastasi)”. Fra i numerosi esempi, egli cita pure l’epatocarcinoma: “È abbastanza diffuso, per il quale usiamo la Fluorocolina che si fissa nelle membrane cellulari e ci permette di studiare il loro turnover”. Dunque, la scelta dell’isotopo radioattivo non è casuale: “Dipende dal tumore che andiamo a indagare, perché il metabolismo è diverso per ciascuna neoplasia”.

La PET rappresenta la “luce nell’oscurità” nella ricerca di  infezioni o infiammazioni

Passiamo ora in rassegna le indagini di Medicina nucleare nell’ambito non oncologico: “Le principali indicazioni riguardano infezioni e infiammazioni e lo studio delle malattie neurodegenerative. È molto interessante sapere che un cervello sano consuma molto zucchero. Per contro, nelle patologie neurodegenerative questo si riduce. Questo meccanismo ci permette di iniettare il radiofarmaco (FDG: fluoro-desossi-glucosio) e diagnosticare precocemente la malattia, prima ancora che abbia dato sintomi, proprio andando a indagare il ridotto consumo di zucchero da parte di alcune aree cerebrali interessate dalla patologia”. L’importanza di questo passo avanti nella diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative sta nel fatto che: “Oggi i pazienti con segnali di allarme possono usufruire di una presa a carico molto precoce, con terapie atte a rallentarne sensibilmente il decorso. Considerando il progressivo invecchiamento della popolazione, possiamo comprendere il maggiore bisogno di diagnosticare prima possibile queste patologie per favorire una migliore e precoce presa a carico del paziente”.

Passiamo infine in rassegna altre indicazioni non oncologiche per gli esami di Medicina Nucleare: “La scintigrafia miocardica con traccianti di perfusione studia il funzionamento cardiaco per diagnosticare una cardiopatia ischemica; la scintigrafia polmonare con traccianti di perfusione permette di individuare un’embolia polmonare; la scintigrafia renale è utile allo studio delle nefropatie ostruttive e allo studio della funzionalità renale; la scintigrafia ossea studia patologie con alterato metabolismo osseo e fra le indicazioni più frequenti troviamo la sospetta mobilizzazione di protesi ortopediche; senza tralasciare le indicazioni reumatologiche per studiare il metabolismo osseo-articolare alterato in alcune di esse”.

In conclusione, se bisogna passare dalla Medicina nucleare per un’indagine diagnostica non vale la pena di lasciarsi prendere da paure o ansie. Sono pure del tutto inopportune le preoccupazioni riguardo alla pericolosità o alla dolorosità delle metodiche impiegate. In molti casi, il maggiore disagio sta solo nell’attesa dovuta ai tempi tecnici necessari all’esecuzione di alcuni esami, non certo alla dose di radioattività che si riceve. E, conclude il professor Treglia: “Il grande beneficio diagnostico, e di conseguenza terapeutico, giustifica ampiamente questo aspetto”.