
Salute pubblica
COVID-19: il tracciamento dei contatti è stato efficace?
UNIGE
di Alessandra Arrigoni Ravasi
Durante la pandemia di COVID-19, la Svizzera, come molti altri Paesi, si è affidata al tracciamento dei contatti per identificare le persone che potevano essere state contagiate da un conoscente infetto. Questa strategia, comunemente messa in atto in caso di focolai epidemici, si è dimostrata efficace nell’interrompere la trasmissione del virus? Gli epidemiologi dell’Università di Ginevra (UNIGE) e degli Ospedali Universitari di Ginevra (HUG) hanno analizzato i dati raccolti a Ginevra. Complessivamente, il 40% delle persone infette è stato identificato attraverso conoscenti ammalati. Pertanto, questo tasso ha subito delle fluttuazioni in base alla variante coinvolta, al tipo di alloggio e alla ricchezza del quartiere. Questi risultati, pubblicati sulla rivista EuroSurveillance, suggeriscono che il solo monitoraggio dei contatti non è sufficiente per controllare alcune epidemie, ma deve essere seguito da una serie di misure che tengano conto delle caratteristiche specifiche di ciascuna malattia.
Il tracciamento dei contatti (o contact-tracing) consiste nell’identificare le persone che sono venute in contatto con un malato, in modo da poter essere trattate prima di essere a loro volta in grado di trasmettere la malattia.
“L’efficacia di questa strategia dipende in particolare dalle caratteristiche della malattia in termini di sintomi, contagiosità e modalità di trasmissione”, spiega Delphine Courvoisier, professoressa assistente presso il Dipartimento di Medicina della Facoltà di Medicina dell’UNIGE, epidemiologa presso il Servizio della qualità delle cure dell’HUG e delegata dall’HUG in qualità di responsabile della cellula ‘dati’ presso il Servizio Medico Cantonale durante la pandemia di COVID-19, che ha diretto questo lavoro. “Nel caso di Ebola, ad esempio, dove i pazienti sono contagiosi solo dopo la comparsa dei sintomi, o più recentemente nel caso del morbillo, il tracciamento dei contatti ha dimostrato la sua efficacia nell’interruzione delle catene di trasmissione”.
Per valutare l’efficacia del tracciamento dei contatti durante la pandemia di COVID-19, Delphine Courvoisier e il suo team hanno analizzato i dati relativi a oltre 140’000 casi e 185’000 contatti registrati nel Cantone di Ginevra tra giugno 2020 e marzo 2022.
Mancata segnalazione volontaria o involontaria?
“Per determinare il numero di persone identificate tramite contact tracing, abbiamo per prima cosa dovuto determinare il numero di persone che si erano infettate a vicenda. Per farlo, abbiamo esaminato quante persone erano risultate positive al test SARS-Cov2 nell’arco di dieci giorni e vivevano sotto lo stesso tetto “, spiega Denis Mongin, professore aggiunto presso il Dipartimento di Medicina della Facoltà di Medicina dell’UNIGE, statistico presso l’HUG ed esperto delegato all’elaborazione dei dati raccolti.
“In seguito, per eliminare l’elemento della casualità, abbiamo effettuato un test di permutazione assegnando a caso un indirizzo a ogni persona. La differenza tra il numero di persone risultate positive in un periodo di dieci giorni allo stesso indirizzo prima e dopo la permutazione indica il numero di persone infettatesi in casa, numero che viene poi confrontato con le persone dichiarate quali contatti. In questo modo, abbiamo potuto stimare il tasso complessivo di segnalazione dei contatti, nonché la sua evoluzione nel tempo e la sua dipendenza in base al profilo socio-economico dei quartieri, del tipo di edifici e della densità della popolazione”.
In media, circa il 40% delle persone infette ha potuto essere identificato attraverso il tracciamento dei contatti, con variazioni che vanno dal 25% all’apice delle ondate epidemiche al 60% nei periodi più calmi. Inoltre va detto che i fattori socioeconomici influiscono notevolmente. Per esempio, più l’edificio è grande e dispone di più aree in Comuni (negozi al piano terra, per esempio), più è probabile che le persone non segnalino i loro contatti. “Si tratta probabilmente di omissioni involontarie: le persone si incontrano senza farci caso, non conoscono necessariamente i loro vicini e il virus rimane sospeso nell’ascensore”, spiega Denis Mongin. “Inoltre, questo effetto scompare durante le fasi di restrizione degli incontri e di obbligo di indossare le mascherine, il che ci permette anche di valutare l’efficacia di queste misure”.
D’altra parte, più alto è lo status socio-economico dei quartieri, meno le persone segnalano i loro contatti. “Sono state avanzate molte ipotesi: minore rispetto delle direttive governative, ma anche maggiore possibilità di autoisolamento a causa delle dimensioni delle abitazioni e delle professioni che consentono alle persone di lavorare da casa, senza la necessità di un certificato medico”, afferma Delphine Courvoisier. “In ogni caso, questo dimostra l’importanza di coinvolgere sociologi e antropologi nello sviluppo e nella valutazione delle politiche sanitarie, per comprendere i fattori umani coinvolti nel loro successo o fallimento”.
Una misura tra le tante
Il COVID-19 è una malattia altamente contagiosa, che si trasmette tramite aerosol e che infetta le persone prima della comparsa effettiva dei sintomi. Queste caratteristiche rendono quindi particolarmente complesso il tracciamento dei contatti. Alla luce di questi risultati, questa strategia è stata la soluzione migliore per ridurre le catene di trasmissione? “Il contact tracing da solo ha avuto un effetto solo relativo sulla dinamica dell’epidemia. Ma non va trascurata la sua importanza come supporto psicologico per la popolazione, per rassicurare e ascoltare le persone in questo periodo estremamente ansiogeno. Inoltre, l’idea non è quella di riscrivere la storia per rimettere in discussione le decisioni che avevano senso al momento dei fatti, ma di utilizzare queste esperienze per costruire una risposta più solida e multimodale quando ci troveremo di nuovo di fronte a un’epidemia su larga scala”, concludono gli autori.