
Non solo negazionisti: le “non malattie”
di Dario Tobruk
Sembra paradossale volerne parlare dopo il periodo della pandemia, ma non esistono soltanto negazionisti il cui urlo sui social è tale da far emergere la loro presenza.
Serpeggia al loro fianco il pre-malato di Covid, l’ipocondriaco non-ancora-malato, e se davvero pensiamo che sia un problema da poco, datemi qualche minuto per convincervi del contrario.
I pre-malati sono quelli che, quando va bene, si comprano gli integratori vitaminici pensando che questo li possa aiutare ad evitarsi il Covid, e quando va male vanno in giro con la tuta contenitiva. Lungi da me l’idea che vi sia un complotto, appoggiare l’idea che il negazionista abbia le sue ragioni, e che dietro a tutto questo ci sia un Ordine Mondiale pronto a qualsiasi azione pur di poterci iniettare le loro porcherie nel sangue. Ma esiste una giusta equidistanza tra questo e il pre-malato: l’esagerato ipocondriaco che rifiuta di vivere e di accettarne il rischio intrinseco, ovvero la morte.
Ansia e paura delle malattie diventano business.
Una pandemia globale ha fatto del mondo un ostaggio spaventato e confuso.
Fino a pochi anni fa il malato era veramente ammalato. Oggi, è innegabile, ci sentiamo un po’ tutti con un piede nella fossa. Fumi? Cancro. Troppo zucchero? Diabete. Troppo sale? Ipertensione, e quindi insufficienza renale, scompenso cardiaco, morte, magari atroce. Un senso di ansia generalizzata invade i nostri più viziosi comportamenti e il senso di colpa non può essere che esorcizzato da qualche farmaco o prodotto che, guarda caso, è venduto e ben pubblicizzato da qualche multinazionale.
Bisogna chiarire che le intenzioni della medicina sono tutto fuorché in malafede. È implicito nella natura stessa dell’essere umano sopravvivere a tutti i costi, e la medicina non fa che rispondere a quel bisogno.
Purtroppo, negli ultimi decenni l’attività diagnostica è stata indirizzata dal paziente malato a quello sano, anzi non-ancora-malato. Questo potrebbe far nascere il sospetto che l’intento sia stato quello di aumentare i pazienti e trasformarli in consumatori.
Il sintomo è la malattia. Il fattore di rischio da oggetto di studio epidemiologico diventa oggetto individuale del vissuto del paziente (hai più di cinquantacinque anni? Male, molto male!), fino a quegli stati di esasperazione di pre-malattia o addirittura non-malattia… bagnarsi prima di piovere, credo, lo chiamino i vecchi saggi.
La medicina al servizio della qualità di vita (o alla semplice sopravvivenza) si è trasformata in un Grande Fratello interno ed invadente. Un’industria che spinge l’uomo a cercare in sé un marcio che non esiste ancora.
“La diagnosi fa la malattia” è un monito mai seguito né dal medico né dal paziente.
Il paradosso della medicina
Lo psichiatra A. J. Barsky, importante studioso dei fenomeni della somatizzazione e delle conseguenze dell’ipocondria, dice:
“Tutti noi potremmo essere in disaccordo con quanto citato. Eppure, basta un secondo di onestà intellettuale per rendersi conto che il più delle volte si va dal medico per la paura di una malattia o di un suo sintomo e per farsi rassicurare dallo stesso. Ed è una conseguenza dell’eccessiva medicalizzazione delle nostre vite”. Ancora Barsky ci illumina con il suo “paradosso della medicina” e i suoi quattro inoppugnabili fattori:
Il miglioramento delle cure mediche consente di vivere più a lungo, ma peggio.
L’aumentata coscienza individuale fa aumentare i cosiddetti “worried well”, i sani preoccupati.
La crescente commercializzazione della salute crea un’aspettativa di guarigione irragionevole.
La progressiva medicalizzazione della vita quotidiana rende meno sopportabili le malattie non curabili.
Sarà per questo che non accettiamo più la morte di un novantenne; aumentano le denunce ai sanitari, l’accanimento terapeutico, la medicina difensiva, e via dicendo.
Il valore soglia della malattia: abbassarlo diventa redditizio
L’autore Marco Bobbio, medico e autore di molti libri sull’argomento, nel suo contributo “La manipolazione della nosografia” in Manuale critico di sanità pubblica (Maggioli Editore, Ottobre 2015) sembra volersi concentrare su un problema concreto: quando si può dire che una persona sia malata? In quale attimo della progressione della malattia un uomo da sano si trasforma in malato?
Secondo G.Rose (Epidemiology in medical practice. Churchill Livingston, London, 1976):
“Non esiste una malattia che ce l’hai o non ce l’hai – esclusa forse la morte improvvisa e la rabbia. Per tutte le altre malattie puoi essere un po’ o molto ammalato”
Quindi, la malattia non può apparire all’improvviso (tranne la morte, unica salda sicurezza in questo mondo).
È erroneo pensarla come una dicotomia assenza/presenza, mentre sarebbe più corretto considerarla un’evoluzione su una gamma di valori da sano a malato: potenzialmente in tutti i punti del suo intervallo (per nulla malato, poco malato, malato, molto malato, morto).
Per ragioni del tutto logiche la ricerca clinica invece ha la necessità d’identificare un evento certo per stabilire con criteri univoci chi va considerato malato e chi no.
Da qui, identificato un valore soglia, si decide chi abbia una data malattia e quando.
Inoltre, nel tentativo di stabilire un’univoca normalità, attraverso la distribuzione normale è quasi automatica una progressiva riduzione dei valori soglia pur d’ingabbiare in una data popolazione statistica la certezza di una malattia.
Tutto questo ha spinto alcune associazioni come l’American College of Cardiology a redigere nel 2013 linee guida che consigliano l’uso di statine (ndr: gruppo di farmaci utilizzati per abbassare i livelli di grassi nel sangue, cioè di colesterolo e trigliceridi) a quasi tutti gli uomini con più di cinquantacinque anni!
Quindi, si può arrivare alla conclusione che abbassare il valore soglia può diventare redditizio.
Aumentando la platea di possibili malati aumentano di conseguenza i possibili pazienti/clienti consumatori.
Più diagnosi non vuol dire meno morti
Paradossale tra i molti, il caso embolia polmonare.
Sempre nel libro Manuale critico di sanità pubblica, il cardiologo Marco Bobbio cita la situazione in cui la presenza diffusa di Angio-Tac nei Pronto Soccorso di tutto il mondo ha permesso ai medici di diagnosticare molti più casi di embolia polmonare.
Sembrerebbe logico supporre che questo porti al risultato di avere più pazienti curati e quindi salvati.
In realtà, le aumentate diagnosi non hanno portato a una minore incidenza di decessi; al contrario, è stato osservato un aumento di emorragie da anticoagulanti (evento avverso del trattamento della patologia embolica).
Pre-malattie: Il fattore di rischio del fattore di rischio
La medicina si spinge sempre oltre, toccando vette concettuali alle volte sorprendenti.
Il JNC7, Settimo Rapporto del Comitato congiunto nazionale statunitense sull’ipertensione, ha così definito la pre-ipertensione:
“La pre-ipertensione non è una categoria di malattia, ma il termine scelto per identificare i soggetti ad elevato rischio di sviluppare ipertensione”
In parole povere, la pre-ipertensione è il fattore di rischio di un fattore di rischio! Nonostante non sia stato dimostrato che questa pre-malattia sia in grado di predire l’insorgenza di ipertensione (fattore di rischio) e un aumento di mortalità tra i pre-ipertesi, questa condizione è diagnosticata e trattata come una qualunque malattia.
Il risultato è un paziente che percepirà se stesso come malato e non come un sano con una lontanissima probabilità di ammalarsi (certo non pari a quella di chiunque altro).
Un paziente spaventato è un paziente disposto a pagare qualunque cifra pur di non rischiare in salute.
Quando la medicina esagera crea le non-malattie
Sfatiamo un mito: la calvizie non è una malattia! No, invero è una delle non-malattie. Cosa si intende per ciò:
“Le non-malattie sono quelle condizioni che vengono identificate come problemi di natura medica ma che potrebbero essere risolte senza essere considerate malattie”
Anche la stitichezza è una non-malattia (bere sufficienti liquidi può aiutare).
Pensereste che anche se non sono malattie comportano comunque dei disagi per molte persone e che necessitino di adeguata assistenza medica. Esatto!
Da qui alla diagnosi, però, non dimentichiamo la creazione di strumenti diagnostico-terapeutici, di sub-specializzazioni e di esperti, di terapie e farmaci, di ambulatori, controlli periodici e assidui. In poche parole: business.
Si sa, il business chiama altro business ma anche marketing e markettari.
La tua calvizie diventa un problema da curare e quindi da pagare.
La stitichezza, nemico numero uno delle donne, ha scomodato per lungo tempo testimonial di eccezione che, grazie all’assunzione giornaliera di yogurt, riusciva a raggiungere la propria regolarità, invitando così migliaia di donne a fare lo stesso (quando gli yogurt diventano miracolosi!).
Trasformare i bisogni delle persone in profitti, questo è il problema della medicina che esagera.
Alcune conclusioni
Le domande che da sanitari ci dovremmo porre sono: “Cosa possiamo fare per impedire tutto questo? Come impedire che la mercificazione della salute diventi un incubo pervasivo e totalizzante, che ci fugga dalle mani il buonsenso del necessario? Davvero desideriamo l’immortalità a prezzo della nostra anima?”.
Spirito critico e libertà possono essere due delle possibili risposte.
Solo con una cultura umanistica e scientifica commista nelle giuste dosi si potrà riportare la sanità da interesse capitalistico a servizio dell’Umanità. Leggere, informarsi, formarsi, criticare: questo è l’invito che l’oggi ci pone affinché si crei un futuro migliore, nel quale essere sani vuol dire ancora essere umani, fallibili e, speriamo, ancora mortali.