
Alain Kaelin, “L’homme neuronal”
a colloquio con il direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera Italiana, alla scoperta della sua grande passione per il cervello
di Maria Grazia Buletti
Ospedale Regionale di Lugano, sede Civico: un mattino d’autunno caldo e soleggiato, il lungo corridoio che porta al Neurocentro della Svizzera Italiana, la porta del suo ufficio già socchiusa, la targhetta sul muro adiacente: professor Alain Kaelin, direttore medico e scientifico NSI. Lo incontriamo per parlare della sua passione per il cervello (“Sin da bambino, il cervello mi ha sempre affascinato”), dei suoi primi dieci anni in Ticino (“Sono arrivato nel 2014, avevo già il Ticino nel cuore, per me era molto di più che «die Sonnenstube der Schweiz»”), dell’evoluzione del Neurocentro della Svizzera Italiana (“La popolazione locale merita una presa a carico con trattamenti all’avanguardia e di qualità che oggi possiamo offrire”), della realizzazione del sogno di una facoltà universitaria ticinese di Scienze biomediche dove a settembre 2023 sono stati abilitati alla professione medica i primi 47 medici che hanno studiato nel nostro cantone (“Tutti promossi, un grande successo che abbiamo costruito a partire da quell’idea nata nel 2013...”).
Alain Kaelin e questa sua grande passione per il cervello...
Mi sono sempre interessato al cervello, già dai tempi del ginnasio quando avevo letto il libro L’homme neuronal scritto dal filosofo e neuroscienziato Jean Pierre Changeux. Era il 1983 e mi si era aperto un mondo, potenziando il fascino che ho sempre subito nei confronti di quest’organo così enigmatico che avrei voluto conoscere a fondo. Mi interessava la ricerca, ancor più che diventare medico: mi chiedevo se studiare il cervello potesse poi illuminarci sul funzionamento del pensiero, sulle questioni filosofiche legate alla relazione fra mente e cervello, e sulle conoscenze biologiche del sistema nervoso e le relative malattie.
Però poi si è dedicato anche all’attività clinica, di medico, oltre che di ricercatore...
Quando ho iniziato gli studi in medicina mi interessavo già all’ambito della ricerca, ma capire il cervello non mi bastava: mi sono reso conto che mi sarebbe mancato il contatto umano che ancora oggi mi sta davvero a cuore. Scegliere di diventare neurologo si è rivelato essere il buon compromesso: occuparmi del cervello, essere medico e avere contatto con le persone, coi pazienti, senza trascurare l’attività di ricerca che non mi avrebbe visto solo in laboratorio, ma che da sola non mi avrebbe completato.
“Un enigma che non finiremo mai di scoprire”: così lei ha più volte definitoil nostro cervello. È questa “incognita” la sfida che la spinge verso la neurologia e la ricerca?
Non lo so nemmeno io bene cosa mi affascina. Però ricordo che i miei anni al ginnasio, quando mi cominciavo ad appassionare, coincidevano con gli albori della ricerca moderna delle neuroscienze. Quel libro... il cervello fatto di neuroni..., per me significava provare a sondare quello che ancora oggi amo ripetere: volevo iniziare a “capire la cattedrale cominciando dai mattoni”. Ecco, volevo vedere il cervello non solo come una scatola chiusa in relazione al comportamento e all’influenza esterna, ambientale; bisognava comprendere sempre meglio il suo funzionamento interno, capire cosa c’è in quella macchina. Una vocazione? Non lo so, forse sì, che sicuramente si è rafforzata lungo i miei studi di medicina. Era l’epoca in cui si pensava ancora alla neurologia come a “qualcosa di interessante, ma dove non si poteva fare quasi nulla per il paziente”. Non si aveva la consapevolezza di tante malattie neurologiche, e tutto questo mi è stato di stimolo: una sfida perché c’era da fare, eccome! Benché la ricerca moderna producesse i primi risultati, non avevamo i trattamenti per queste patologie ancora poco note e questa era una ragione in più per dare il mio contributo a trovarne di nuovi. Per i miei colleghi tutto ciò non sembrava interessante, ma per me era una grande motivazione.
Oggi sono tante le sfide poste da patologie oramai note come Alhzeimer e Parkinson, ad esempio...
Con l’aumento della speranza di vita della popolazione, oggi siamo dinanzi a grandi sfide come quella dell’Alzheimer e del Parkinson o dell’ictus. Sono patologie che conosciamo molto meglio anche se non del tutto, e che trattiamo in modo incredibilmente migliore rispetto ai miei esordi. Pensiamo pure all’ictus: quando ero studente, il paziente giungeva all’ospedale, ma non c’era molto da fare. Oggi arrivano pazienti paralizzati dall’evento ischemico cerebrale, che due giorni dopo non lo sono più, grazie ai trattamenti moderni. Il Parkinson è un ambito di cui mi sono sempre molto interessato, perché legato al mio interesse del sistema motorio (sono specializzato in malattie del movimento). Inoltre, è la patologia che sta subendo il maggiore incremento percentuale relativo per rapporto all’Alzheimer: entrambe sono malattie legate all’invecchiamento della popolazione che non sono guaribili, ma curabili molto più di un tempo, così come lo è la sclerosi multipla. Questa è la mia motivazione: abbracciare una branca della medicina in cui c’è ancora molto da scoprire, da migliorare.
Anche la ricerca va di pari passo all’evoluzione di queste patologie...
Esatto. Una delle priorità del Neurocentro della Svizzera Italiana è avanzare parallelamente con la medicina clinica e la ricerca clinica e traslazionale che si svolge nei nostri laboratori di Bellinzona. Anche in questo ambito, il Ticino è un Cantone che si presta e merita ogni sforzo: siamo il Cantone con la maggiore speranza di vita, la popolazione invecchia sempre di più, e il rovescio della medaglia è che incrementano anche le malattie neurodegerative legate all’età, così come aumentano i relativi costi della salute. Come Neurocentro, nostro dovere è riuscire ad offrire il meglio possibile razionalizzando risorse e massimi benefici. Dobbiamo restare sempre coscienti di quanto può essere preso a carico da noi in relazione al sufficiente numero di pazienti che vi sono nel Cantone (e che consente un’expertise di trattamento), e collaborando con centri altamente specializzati come Berna e Zurigo per quelle patologie meno frequenti che necessitano, ad esempio, trattamenti di neurochirurgia super specializzati (possibili laddove il numero di pazienti è sufficiente per la migliore e massima presa a carico). Questo permette di garantire a ciascun paziente la qualità in ogni occasione: quella che possiamo offrire in Ticino, e che oggi è molto approfondita, coadiuvata da quella dei nostri partner di medicina altamente specializzata fuori dalla Svizzera italiana. Anche questo aspetto comporta, oltre che un massimo beneficio per il paziente, un’ottimizzazione dei costi della salute che oggi è pure auspicabile.
Qualità delle cure e prossimità: nella sanità è un’equazione che deve restare in equilibrio?
Le cure non dovrebbero dipendere da fattori esterni: chilometri o meteo. Ricordo quando ero giovane capoclinica vent’anni fa a Berna, all’epoca Centro di punta del trattamento dell’ictus. Ci telefonavano dall’Ospedale Civico chiedendo se potevano trasportare con la Rega, da Lugano a Berna, un paziente con ictus che avremmo accolto volentieri, ma che cinque minuti dopo sapevamo non sarebbe arrivato perché la meteo era avversa e la Rega non poteva volare. L’ictus è una patologia che necessita di un trattamento immediato la cui qualità non deve dipendere dalla meteo. Oggi, al Neurocentro con la Stroke unit abbiamo trattamenti locali davvero efficaci e immediati per questa patologia, e in neurologia non ha più ragione di essere la famosa frase secondo cui “Il migliore ospedale per il Ticino è il treno per Zurigo”. Però non dobbiamo dimenticare un concetto ambizioso ma realistico: nella sanità non dobbiamo riuscire a fare tutto localmente, ma dobbiamo valutare su cosa ha senso concentrarci. In Ticino necessitiamo di una centralizzazione sanitaria, per assicurare la qualità data dalle risorse subordinate a una certa massa clinica, perché un centro potenzia le sue competenze anche grazie a un numero sufficiente di pazienti. Non da ultimo, ne beneficia pure l’aspetto economico: più le strutture sono complesse e più sono care, l’uso efficiente delle risorse significa centralizzare tutto ciò che è possibile centralizzare, a beneficio della qualità e della razionalizzazione dei costi sanitari. Sotto questi aspetti il nostro modello del Neurocentro è vincente: un piccolo esempio è dato dalla collaborazione della Croce verde che permette di giungere prestissimo allo Stroke per una presa a carico immediata ed efficace, come dicevamo.
In generale, dobbiamo capire che senza un minimo di pazienti non si può avere la qualità, e in una realtà come la nostra ticinese significa concentrare e centralizzare le risorse là dove è necessario.
Lei diceva di attribuire alla ricerca una delle massime priorità del Neurocentro della Svizzera Italiana, come procede in Ticino?
Siamo focalizzati sulla ricerca clinica e transazionale, riservando quella di base ai grandi centri di ricerca che dispongono dei maggiori mezzi necessari. Questo non è un difetto, ma rappresenta un valore, in quanto in Ticino abbiamo l’eccezionale opportunità di disporre di un Neurocentro a diretto contatto con la popolazione. Ciò ci permette di comprendere sempre meglio la biologia della malattia partendo davvero dal paziente. Un esempio di ricerca transazionale è quello in atto sul Parkinson: non possiamo andare a prelevare un pezzo di cervello per studiarlo, ma possiamo concenetrarci sull’analisi di un pezzo di cute (ndr: biologicamente molto innervato, dunque ideale) del paziente stesso per approfondire gli aspetti della malattia e provare a trovare nuovi orizzonti di diagnosi e terapeutici.
Capire la biologia del paziente resta la nostra priorità, e ci permette di essere competitivi nel difficile mondo della ricerca (che necessita di fondi spesso difficili da ottenere), perché la vicinanza tra clinici (medici) e ricercatori è un grande vantaggio favorito dalla nostra piccola dimensione. Rimane il fatto che, pure qui, c’è ancora molto da fare. Ad esempio, nell’attività clinica è oggi molto importante prendere atto, anche a livello politico, dell’importanza della prevenzione: prevenire, con un’igiene di vita e altri accorgimenti importanti, è sempre meglio che curare, e questo vale ancor di più nell’ambito delle malattie neurodegenerative (ndr: vedi pagina 12-15 REPORTAGE L’irresistibile fascino del cervello).
Tanta la strada percorsa in questi suoi primi dieci anni in Ticino, da lei e dal Neurocentro (nato nel 2009) di cui è direttore medico e scientifico dal 2014...
Ho sempre accarezzato l’idea di scendere in Ticino e non ho mai pensato a questa bella regione di lingua italiana semplicemente come “die Sonnenstube der Schweiz”: sono cresciuto e vissuto a Bienne, una regione pluriculturale dove ho vissuto anche con diverse persone di lingua italiana. Ho affrontato la maturità con l’opzione italiano. Poi, a Berna era grande l’eco della neurologia ticinese del dottor Carlo Tosi, ottimo neurologo clinico che aveva un’ottima reputazione nel piccolo mondo neurologico svizzero. Quando si presentava l’occasione di qualche simposio, sapevamo che valeva sempre la pena venire in Ticino dove noi medici assistenti potevamo imparare ad essere sempre migliori neurologi. Inoltre, venire qui, per me è sempre stato legato a un fatto emozionale. Poi, l’idea di dare il mio contributo di crescita ed evoluzione a un neonato Neurocentro è stata un’enorme motivazione: avrei potuto aiutare a costruire in una struttura giovane, dove di norma vige maggiore spirito innovativo rispetto ad altri luoghi già radicati. Qui, l’idea di contribuire a quello che è stato, e che continua ad essere, era ed è davvero bella!
E c’era pure sul piatto l’idea della Facoltà di biomedicina all’USI che oggi è realtà...
Nel 2013, quando mi è stato proposto dall’EOC di venire come direttore medico al Neurocentro, già mi si era accennato alla creazione di una facoltà di biomedicina: diventare professore di una nuova facoltà di medicina, contribuendo con le mie idee, ha rappresentato almeno l’altra metà della mia grande motivazione. Era un bel progetto locale, con al centro il concetto di alta qualità sulla scia della tradizione di neurologia di qualità, da affrontare con spirito pionieristico. Ero già professore associato all’Università di Berna, e responsabile del centro dei disturbi del movimento all’Inselspital, ma era esaltante l’idea di accogliere queste due sfide ticinesi, questi progetti votati a migliorare l’offerta sanitaria alla popolazione nelle neuroscienze cliniche, insieme al coraggio di creare dal nulla una facoltà di medicina. Motivazioni enormi alle quali non si poteva dire di no. Così, nel 2014 sono arrivato a Lugano come direttore medico del Neurocentro della Svizzera Italiana; nel 2017 abbiamo iniziato il lavoro all’USI di cui ho bellissimi ricordi del team che ci ha accompagnato e aiutato nell’impresa.
Un’impresa che oggi ha mietuto i suoi frutti...
A settembre dello scorso anno abbiamo realizzato quel sogno: alla Facoltà universitaria ticinese di Scienze biomediche sono stati abilitati alla professione i primi 47 medici che hanno studiato nel nostro Cantone: tutti promossi, un grande successo che abbiamo costruito piano piano a partire da quell’idea iniziale.
Le cure cliniche di alta qualità delle malattie neurodegenerative e dell’ic-tus, lo sviluppo di terapie e la ricerca transazionale, tutto nella Svizzera italiana. Neurologia e ricerca procedono di pari passo verso un sapere che si amplia sempre di più.
Il cervello che cerca di capire se stesso è un obiettivo ambizioso, ma pone anche questioni etiche e filosofiche...
Il cervello che vuole capire il cervello: è una bella sfida, ma penso che possiamo dare ancora molto, e già oggi le nostre conoscenze sono molto più approfondite di un tempo. Certo, la domanda è: “Cosa faremo di questo sapere?”.
Ad esempio, capire meglio come lavorano i nostri neuroni ci ha permesso di mettere a punto l’intelligenza artificiale che però ci fa pure un po’ paura perché legata a molte incognite di tipo etico e filosofico. Più scopriamo del nostro cervello e più dobbiamo capire cosa fare di questo nostro sapere, e l’aspetto etico diventa importantissimo.
Come medico voglio curare, guarire le malattie e migliorare la qualità di vita delle persone. Sono cosciente delle domande legate alla ricerca sul cervello: cos’è la libertà di decisione? In inglese si dice free will: siamo davvero liberi, abbiamo davvero il libero arbitrio? O siamo schiavi della macchina che è il nostro cervello? La sempre maggiore conoscenza del nostro cervello è imprescindibilmente legata all’aspetto etico; ecco spiegato perché l’intelligenza artificiale oggi ci fa anche un po’ paura.
Abbiamo conosciuto il professore; ma chi è Alain Kaelin?
Come posso definirmi in due o tre parole...? Ecco, mi ritengo un po’ un “prodotto” della regione di Bienne dove sono cresciuto e vissuto. Come dicevo, una zona multiculturale che ha plasmato molto del mio essere e mi ha portato a un’apertura verso diverse culture, facendomene sentire parte integrante e non legato a una sola radice. Poi, ho infranto un tabù (ndr: sorride) perché mia moglie è tedesca, ancora un’altra cultura. Eppure, da quando ci siamo conosciuti, quando ero ancora studente, ho sempre potuto contare sul suo sostegno: ero studente e lei mi ha aiutato e mi è stata sempre al fianco, anche quando da giovane medico ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, con due figli piccoli e poche risorse economiche.
Hobby? Diciamo che oggi ho un gran piacere a cucinare e sto sperimentando, anche qui, il connubio fra la cucina tedesca di mia moglie e quella francese dei miei genitori. Ma devo anche ammettere che, oltre all’amore giovanile per l’arrampicata (che ho dovuto abbandonare per la professione) e le passeggiate in montagna, il mio hobby rimane la mia professione. Si dice “work – life – balance”, ma il lavoro non è forse anche vita? Ok, la vita non è solamente lavoro, ma ne passiamo gran parte a lavorare e dovremmo trarne piacere. Per me è fortunatamente così: il mio lavoro coincide con la mia passione, ho una professione molto interessante e soddisfacente, e fatico a differenziarla dall’hobby.
Lei oggi si può dire felice di questo cammino decennale in Ticino. La felicità è un’emozione. Avremmo voluto chiederle se lei si sente più felice nel cervello o nel cuore. Ma non lo facciamo. Lasciamo a lei questa riflessione.
Grazie, professor Kaelin, e buon lavoro.